n° 23 (2017) 33-42
L’indicazione d’origine
degli ingredienti: una rivoluzione francese neo-protezionista?
Luis González Vaqué
«Le Marché commun a étè, et reste à ce jour,
le coeur de la construction europénne, dont
il scande le rythme»
Alfonso Mattera
I. Introduzione
L’obbligo di indicare l’origine degli alimenti nell’etichetta è stato per
molti anni un tema controverso[1]; ad ogni modo il dibattito
si è accentuato dopo la cosiddetta “crisi della mucca pazza” di triste memoria:
probabilmente a quel tempo l’angoscia dei consumatori europei si è
concretizzata nel rifiuto della carne proveniente dal Regno Unito… Non intendiamo
indagare a posteriori se le autorità di alcuni Stati membri, in cui erano
stati individuati animali malati, abbiano cercato o meno di indirizzare la
paura verso una malattia trasmissibile attraverso l’ingestione di carne
concentrando con ogni mezzo l’allarmismo solo sulla carne proveniente
dall’altro lato del Canale della Manica.
La cosa certa è che, a causa dell’encefalopatia spongiforme bovina[2], è cresciuto l'interesse
per una tracciabilità[3] adeguata ed è stato
introdotto l'obbligo di indicare l'origine di alcuni tipi di carne. Non c’è
dubbio che si sia trattato di un provvedimento giustificato. Sono passati molti
anni da quando la suddetta crisi ha minato la fiducia dei consumatori europei nell’efficacia
dei controlli alimentari, ma ora, in piena crisi economica, alcuni Stati membri sono caduti
nella tentazione di tirar fuori dall’armadio la loro consustanziale
inclinazione a potenziare, in modo più o meno celato, un (neo?) protezionismo
che, per essere davvero efficace e proficuo per i produttori nazionali,
richiede che si imponga al più presto l’obbligo di indicare l’origine nelle
etichette di determinati prodotti alimentari e/o ingredienti. Dobbiamo
riconoscere che, sia la Commissione (nella sua “Proposta di regolamento del
Parlamento Europeo e del Consiglio relativo alla fornitura di informazioni
alimentari ai consumatori”[4]), come lo stesso legislatore comunitario [con
il corrispondente Regolamento (UE) n. 1169/2011 relativo alla
fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori[5]], hanno agevolato i gruppi
di pressione interessati a frammentare quello che sarebbe dovuto essere un “unico mercato senza
frontiere” degli alimenti all’interno dell’Unione Europea… In entrambi i
documenti (di cui ci occuperemo in dettaglio più avanti) sembra che si
spalanchino le porte alla giustificazione da parte degli Stati membri della necessità
di esigere sistematicamente la menzione del paese d'origine nell’etichetta dei
prodotti alimentari. In tale contesto, la Commissione ha sorpreso chiunque ad
adottare la Decisione di esecuzione della Commissione 2013/444/UE, del 28 agosto 2013,
relativa al progetto di decreto dell’Italia recante modalità di indicazione
dell’origine del latte a lunga conservazione, del latte UHT, del latte
pastorizzato microfiltrato e del latte pastorizzato ad elevata temperatura[6], impedendo all’Italia
l’applicazione dell’articolo 2.1 di tale Decreto che stabiliva che
nell'etichetta delle suddette tipologie di latte si dovesse indicare il paese
d’origine dell’azienda lattiera da cui proveniva il latte trattato, o l’indicazione «UE» o «paesi
terzi» qualora il latte provenisse, rispettivamente, da uno o più Stati membri
dell’Unione europea o da paesi terzi. Più avanti faremo riferimento alle
argomentazioni della Commissione che hanno motivato tale Decisione. Tuttavia,
prima di analizzare tali constatazioni, cercheremo di spiegare quale sia stata
l’evoluzione giuridica dell’obbligo del riferimento al paese d’origine degli
alimenti commercializzati nella UE dal 1978 ai giorni nostri.
II. Evoluzione storica: il
regolamento (UE) n. 1169/2011
Non riteniamo opportuno entrare nel dettaglio
dell’analisi delle normative comunitarie che hanno regolato l’etichettatura dei
prodotti alimentari nell’Unione Europea. Ad ogni modo, ricorderemo che la
Direttiva 79/112/CEE del Consiglio, del 18 dicembre 1978, relativa al
ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri concernenti
l'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari destinati al
consumatore finale, nonché la relativa pubblicità[7], è stata la
prima in materia, consacrandone i principi fondamentali; principi confermati e
reiterati nella direttiva 2000/13/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio del 20 marzo 2000[8].
Infine, il legislatore comunitario ha adottato il regolamento (UE) n. 1169/2011[9] allo scopo di “…ottenere un elevato livello
di tutela della salute dei consumatori e assicurare il loro diritto
all’informazione [e] garantire
che i consumatori siano adeguatamente informati sugli alimenti che consumano”[10]. Un altro obiettivo
dichiarato è quello di razionalizzare “… i principali componenti dell’attuale legislazione
sull’etichettatura [che] continuano a essere validi …”[11], così come “… agevolarne il rispetto e
aumentare la chiarezza[12] per le parti interessate …”[13].
Per quanto riguarda la
questione che ci interessa, il legislatore comunitario ha confermato che si
deve indicare il paese di origine o il luogo di provenienza di un alimento ogni
qualvolta la mancanza di indicazione possa indurre in inganno i consumatori sul
vero paese di origine o sul luogo di provenienza di tale prodotto: “in tutti i casi,
l’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza dovrebbe essere
fornita in modo tale da non trarre in inganno il consumatore e sulla base di
criteri chiaramente definiti in grado di garantire condizioni eque di
concorrenza per l’industria e di far sì che i consumatori comprendano meglio le
informazioni relative al paese d’origine e al luogo di provenienza degli
alimenti”[14].
Dopo un riferimento alla
crisi dell’encefalopatia spongiforme bovina, che ha reso necessario stabilire
l’obbligatorietà dell’indicazione d’origine per la carne bovina e per i
prodotti a base di carne bovina[15], cosa che sembra aver
creato delle aspettative tra i consumatori, nel Considerando nº 31 del regolamento n. 1169/2011 si
insiste sul fatto che la valutazione d’impatto della Commissione conferma che
l’origine della carne risulta essere la principale preoccupazione dei
consumatori: “vi sono altre carni di cui si fa ampio consumo
nell’Unione, quali le carni di animali della specie suina, ovina, caprina e le
carni di volatili”[16] e, “pertanto è opportuno imporre
la dichiarazione obbligatoria dell’origine per tali prodotti”[17].
Tenendo conto del fatto
che i requisiti specifici sull’origine possono variare da un tipo di carne
all’altro, in funzione delle caratteristiche della specie animale, il
legislatore dichiara che “è opportuno prevedere, tramite norme di
attuazione, l’istituzione di requisiti obbligatori che potrebbero variare da un
tipo di carni all’altro tenendo conto del principio di proporzionalità e degli
oneri amministrativi per gli operatori del settore alimentare e per le autorità
incaricate di far applicare la legislazione”[18].
Per completare le
informazioni sugli argomenti affrontati in merito a quello che alcuni autori
hanno classificato come un incitamento irragionevole e infondato alla
generalizzazione dell’esigenza di indicare l’origine dei prodotti
alimentari[19] facciamo
riferimento alle disposizioni del tanto citato regolamento
n. 1169/2011, relative alla menzione obbligatoria del paese di origine o luogo
di provenienza: si tratta dell'articolo 9(h)
(“Elenco delle indicazioni obbligatorie”) e dell’articolo 26 (“Paese d’origine o luogo di
provenienza”).
Chiaramente, il farraginoso e intricato articolo 26 è il risultato di un
impegno tra gli Stati membri che volevano diffondere il prima
possibile l’esigenza di tale indicazione e quelli più prudenti che hanno
ritenuto che tale obbligo avrebbe comportato inevitabilmente una frammentazione
del mercato interno della UE a medio o lungo termine. Il contenuto di questa
disposizione è sorprendentemente eterogeneo: disposizioni precise per quanto
riguarda l’obbligo della menzione in questione (“nel caso in cui l’omissione
di tale indicazione possa indurre in errore il consumatore …” e “per le carni dei codici
della nomenclatura combinata (NC) elencati all'allegato XI[20]”); altre di difficile
interpretazione e che, probabilmente, non apportano nulla al consumatore[21] (“quando il paese d’origine o
il luogo di provenienza di un alimento è indicato e non è lo stesso di quello
del suo ingrediente primario[22]”); e quelle che impongono
solamente alla Commissione l’obbligo di adottare atti esecutivi o di presentare
varie relazioni (che, se del caso, allegheranno proposte di
modifica delle disposizioni pertinenti).
III. La Decisione di esecuzione della Commissione
2013/444/UE relativa al progetto di Decreto italiano sui metodi per indicare
l’origine del latte
Non riteniamo opportuno in questa occasione analizzare nel dettaglio la Decisione di esecuzione
della Commissione 2013/444/UE, del 28 agosto 2013, in quanto, inter alia,
sono già trascorsi diversi anni dalla sua adozione[23]. Tuttavia, la negazione di
quanto richiesto dall’Italia potrebbe implicare una discriminazione in merito
all’accettazione, alcuni mesi fa, da parte della Commissione della pretesa
della Francia di adottare un Decreto che obblighi ad indicare l’origine della
carne e del latte, tema che affronteremo più avanti.
In questo contesto, riteniamo che valga la pena ricordare quanto previsto
dall’articolo 1 di tale decisione:
“La Repubblica italiana non adotta le disposizioni
di cui all’articolo 2, paragrafo 1, del decreto notificato recante modalità di
indicazione dell’origine del latte a lunga conservazione, del latte UHT, del
latte pastorizzato microfiltrato e del latte pastorizzato ad elevata
temperatura”.
Può anche essere utile ricordare che, nel 2013, la Commissione[24] ha respinto le argomentazioni
delle autorità italiane, per le seguenti ragioni:
• quanto disposto
dall’articolo 2.1 del Decreto notificato sembrava presupporre che gli alimenti
in questione si presentassero sempre in modo tale da confondere il consumatore
italiano sulla loro vera origine o sul loro vero luogo di provenienza e,
inoltre, si poteva ritenere a tale proposito che l’ambito di applicazione del
suddetto Decreto non includesse il latte con una durata (molto) limitata (latte
crudo, latte pastorizzato): “proprio questi ultimi potrebbero quindi con più
probabilità essere percepiti dal consumatore come di origine italiana”[25]; e
• a parte il riferimento alla necessità di
proteggere gli interessi del consumatore, le autorità italiane non hanno
fornito giustificazioni sufficienti che permettessero di concludere che, per
quanto riguarda i prodotti di cui all’articolo 1 del Decreto notificato, fosse
necessaria una menzione d’origine obbligatoria che vada oltre l’obbligo
stabilito dall’articolo 3.1 (8) della Direttiva 2000/13/CE.
IV. Il «Décret n° 2016-1137 du 19 août 2016 relatif à
l’indication de l’origine du lait et du lait et des viandes utilisés en tant
qu’ingrédient». Privilegi per la Francia?
Il Decreto n° 2016-1137[26] adottato di recente dalle
autorità francesi impone l’obbligatorietà di indicare l’origine del latte e
della carne usata come ingrediente negli alimenti confezionati. Nel caso della
carne a cui venga applicata questa normativa francese, l’indicazione d’origine
includerà le seguenti informazioni (articolo 2): “Paese di nascita (nome del
paese di nascita degli animali)"; “Paese di allevamento: (nome del paese
in cui sono stati allevati gli animali)"; e “Paese di macellazione."
D’altra parte, la menzione dell’origine del latte, compreso quello usato come
ingrediente nei prodotti lattiero-caseari regolati dal Decreto dovrà
specificare (articolo 3): “Stato di raccolta: (nome del paese in cui è stato
ottenuto il latte)"; e "Paese di lavorazione: (nome del paese in cui
il latte è stato confezionato o trasformato).". Una strana peculiarità di
questa normativa nazionale è che le due disposizioni saranno esclusivamente (?)
di applicazione limitata al 31 dicembre 2018 (articolo 9): si tratta quindi di
una normativa con una data di scadenza (!).
A nostro parere la recente autorizzazione da parte della Commissione
Europea del Decreto è stata un grave errore che mette effettivamente in
pericolo il Mercato unico alimentare.
Tale autorizzazione è stata concessa da una Commissione politicamente
anemica, ora ancora più debilitata dopo la Brexit. Inoltre, è la conseguenza delle velleità
opportuniste relative all’eventuale indicazione dell’origine di certi
ingredienti inclusi nello sfortunato Regolamento (UE) n. 1169/2011 (a cui abbiamo già
fatto riferimento); infatti, le autorità francesi hanno saputo approfittare di
tali disposizioni, così come delle ripetute minacce della DG Sante (ex DG SANCO), per promuovere
l’obbligo di dichiarare l’origine… addirittura per tutti (o per la maggior
parte) degli ingredienti alimentari! In un certo senso, la Commissione si è
imbattuta in una pietra che, in modo più o meno consapevole, aveva lasciato per
la strada, tradendo il proprio obbligo di far rispettare il Trattato e, in
particolare, di assicurare la libera circolazione delle merci.
In primo luogo, è evidente che costituisce un grave errore politico:
non serve essere un profeta per prevedere che l’autorizzazione in questione
provocherà un effetto “domino” e, ora, tutti gli Stati Membri
chiederanno il permesso di esigere anch’essi l’indicazione dell’origine degli
alimenti e degli ingredienti nel proprio ambito territoriale. Quale argomento
potrebbe rivendicare la Commissione per rifiutarsi di farlo?
Non ci sorprenderebbe se stessimo assistendo alla prima fase di concessioni
e consensi che comprometteranno il Mercato unico alimentare, che tanti sforzi e
sacrifici ci è costato costruite e mantenere.
Inoltre, autorizzare il suddetto Decreto proposto dalla Francia si può
considerare un grave errore giuridico: c’è da chiedersi innanzitutto se
la Commissione possa, senza alcuna giustificazione, accettare eventuali
infrazioni di uno Stato membro alle disposizioni del TFUE relative alla libertà
di circolazione. E, eventualmente, l’approvazione di una normativa nazionale
contraria a tali disposizioni, oltre, ovviamente, al Decreto in questione,
incompatibili con il Diritto comunitario. Probabilmente, purtroppo, dovrà
essere la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ad arrivare a tale conclusione
(ad esempio, nel caso in cui riceva una domanda di pronuncia pregiudiziale
sollevata nell’ambito di un ricorso a una sanzione imposta in virtù
dell’arbitrario Decreto francese).
In questo senso, l’inclusione di relative “clausole di riconoscimento reciproco”
negli articoli 6 e 10 della normativa francese non migliorano la situazione, ma
la rendono più complessa (e illegale!) per la discriminazione de facto
che rappresenta per i prodotti importati, anzi, paradossalmente implicano un
obbligo aggiuntivo per gli importatori se vogliono competere con i prodotti
nazionali (dato che va oltre una discrimination à rebours).
D’altra parte, la Commissione sembra aver accettato una normativa strana ed
inedita: un Decreto-Test in vigore solo per un anno… Cosa accadrà quando terminerà la sua applicabilità? Chi e come verrà condotta la relazione prevista dall’articolo 9 del Decreto
in questione? L’interpretazione del suddetto articolo può implicare che le
autorità francesi siano, senza alcuna garanzia di imparzialità, “giudice e
parte in causa” e venga concesso il rinnovo automatico e illimitato della
validità della normativa francese di cui ci stiamo occupando.
Perfino cercando di vedere l’aspetto positivo di questa apparentemente
effimera normativa, ci assale il dubbio di come il consumatore francese interpreterebbe la mancata
proroga della sua validità e se in tal caso non sarà un attentato al principio
comunitario della legittima aspettativa.
Tutto ciò da un nuovo regolamento che non apporta nulla alle necessarie
informazioni utili destinate al consumatore, dato che, come se non bastasse, la
nuova disposizione (provvisoria e in sperimentazione) obbliga ad aggiungere
ulteriori dati a delle etichette tanto complesse come illeggibili, già sature
di particolari a cui ora, ad esempio, si dovrà sommare anche la menzione del
paese di produzione, trasformazione e/o macellazione. Abbiamo l’impressione che
i membri della Commissione non vadano spesso al supermercato a fare la spesa…
Quella che invece sembra essere vincitrice in questa scommessa è la
produzione francese che consacra una scalata inarrestabile verso il
protezionismo nazionale, anche se non capiamo quale interesse possa avere un
paese che produce ed esporta eccellenti prodotti alimentari nel compartimentare
il Mercato della UE, restituendoci ad una situazione equivalente a quella già
esistente prima della firma del Trattato di Roma.
E non si può sostenere che gli articoli che prevedono la menzione «Origine: UE» servano ad
neutralizzare gli spudorati obiettivi e gli irrimediabili effetti del
neo-protezionismo francese.
V. Conclusioni
1. Cosa accade con l’etichettatura facoltativa?
Chi, più o meno in buona fede, si pronuncia a favore dell’obbligatorietà di
indicare l’origine degli ingredienti o degli alimenti (ad esempio, perché lo
chiede il consumatore), non tiene conto del fatto che la suddetta origine può
essere inclusa volontariamente nell’etichetta, a condizione che venga
rispettato il principio di veridicità… e che tale origine, di cui alcuni produttori
si sentono tanto orgogliosi, può anche essere un argomento per promuovere i
prodotti; di certo, nei paesi in cui dilagano lo sciovinismo e il populismo,
questa indicazione facoltativa potrà implicare che i compratori preferiscano i
prodotti locali: ma tali risultati si possono considerare (sono)
ragionevolmente accettabili e compatibili con il Diritto comunitario.
2. L’effetto “domino”
È allarmante che, dalla sventurata accettazione da parte
della commissione del «décret n° 2016-1137 du 19 août
2016 relatif à l’indication de l’origine du lait et du lait et des viandes
utilisés en tant qu’ingrédient» molti stati membri si siano
affrettati a redigere e a proporre normative nazionali simili (tra questi,
ovviamente, la Spagna[27]).
Quali argomenti può addurre ora la Commissione per
respingere tali iniziative?
3. Quale futuro attende la libera circolazione degli alimenti?
Non ci stancheremo di ripeterlo: imporre l’obbligo della suddetta
indicazione d’origine appare superfluo e infondato dato che nulla impedisce ai
produttori di includere tale riferimento su base volontaria (e, naturalmente,
veritiera) per soddisfare quei consumatori presumibilmente tanto preoccupati di
conoscere la provenienza (nazionale o estera) degli alimenti acquistati.
Infine, permetteteci di fare un avvertimento: la menzione dell’origine,
quando è imposta, a torto o a ragione, in generale contribuisce
irrimediabilmente alla frammentazione e alla disintegrazione del Mercato
interno…
Facciamola finita con tutte queste leggi obbligatorie e lasciamo che sia il
consumatore a decidere!